Una giovane infermiera appena assunta in un piccolo ospedale danese indaga su strani decessi e rompe il muro dell’omertà nella serie Netflix tratta da una storia vera «L’infermiera» di Kasper Barfoed.
Strani decessi avvengono nel pronto soccorso di un piccolo, periferico ospedale danese, il Nykøbing Falster. La giovane infermiera, da poco assunta in reparto, comincia a sospettare che non si tratti di casualità. Le autopsie indicano una overdose combinata di morfina e del sedativo diazepam. L’etica è chiamata in causa per diverse ragioni nella serie thriller-psicologica L’infermiera (The nurse) di Kasper Barfoed (Danimarca 2023). Anzitutto il personale sanitario – lo ricordiamo – ha il dovere di segnalare ogni caso sospetto di malattia e morte, in modo che i responsabili ospedalieri e, se necessario, le autorità giudiziarie preposte attivino i dovuti riscontri e le indagini.
Il cuore della promessa professionale è diretto alla difesa della vita e alla tutela della salute e dignità dei pazienti, non invece all’insabbiamento di notizie scomode, all’evitamento di ogni stress interno allo staff, alla cura dell’immagine promozionale della struttura, o ad altri interessi di tipo commerciale e di carriera. Uno dei motivi per cui sono nati comitati d’etica biomedica (comitati indipendenti, pluralistici e interdisciplinari, quali «occhi» della società nelle cattedrali della salute) è appunto la difesa dei diritti dei soggetti più fragili: i pazienti ricoverati, i loro familiari, i soggetti di sperimentazioni clinico-farmacologiche, i cittadini che richiedono un vaccino. Accordi silenziosi tra colleghi, vantaggi corporativi, incentivi pecuniari e, più in generale, la vischiosa pigrizia con cui le istituzioni tendono a una routine meccanica, automatica e ripetitiva, sono fattori da sorvegliare con attenzione, in modo da prevenire l’impersonalità, il degrado e la disumanità della prassi clinica.
Il cinema ha dato rappresentazione (documentaria o di fiction) di una possibile metamorfosi horror del potere medico. Basti ricordare il film Coma profondo (Usa 1978) di Michael Crichton o il recente The good nurse (Il bravo infermiere, Usa 2022) di Tobias Lindholm. La tecno-biologia è dipinta nella sua inquietante ambivalenza: essa può guarire, ma può anche far ammalare (il termine è «iatrogenesi»), essa esalta i nuovi sacerdoti della medicina intesa come religione secolare, ma nel contempo li logora psicologicamente, chiede loro tempi e ritmi stressanti, li allontana dagli affetti familiari, li espone a illusioni di onnipotenza e alla brama di potere. I profani venerano e temono la manipolazione del corpo, carezzano il mito di una vitalità perennemente giovanile e assieme rimpiangono la perdita di un sano senso del limite; pagano cifre ingenti per programmare check up miracolistici e poi (se accade un incidente) aggrediscono i presunti responsabili di false promesse e puniscono il marketing di una guarigione totale.
La serie tv L’infermiera è girata dalla prospettiva narrativa di Pernille Kurzmann, infermiera neolaureata (separata dal compagno e con una dolcissima bambina cui deve provvedere e da cui impara sincerità e coraggio) che rompe l’omertà dello staff, raccoglie testimonianze decisive e viene incaricata dalla polizia di partecipare alle indagini. Perché gli infermieri più anziani tacevano? Perché i medici non facevano i dovuti controlli sulle autopsie, prima che i corpi fossero cremati? Forse perché l’intero staff non era riuscito ad affrontare il dolore della separazione finale (così frequente in reparti di cure intensive) e il diffuso sentimento di paura, debolezza, impotenza, tristezza veniva lenito dalle performance spettacolari del dream team, l’immaginaria «squadra del sogno», che assicura un’eccitazione adrenalinica, ostenta freddezza nell’emergenza mortale, seduce falsamente gli scettici ostentando condotte temerarie e miracolistiche.
Il regista Kasper Barfoed si concentra anzitutto sulle reazioni di sorpresa e paura della nuova arrivata, segnata da una faticosa storia familiare, e sull’ingenua ma perspicace intuizione che, se ci sono troppi decessi inspiegati in pronto soccorso e vengono raccontate strane bugie, non si devono chiudere gli occhi, ma occorre domandare ostinatamente «perché?», a costo di passare per antipatici. Dallo stupore nasce la filosofia, in particolare la filosofia morale. Gli spettatori, che fanno il tifo per Pernille, avvertono nel contempo il fascino dell’altra protagonista, Christina, la sua grinta nei turni notturni, i suoi ipnotici occhi azzurri truccati come per un appuntamento amoroso o un’intervista tv. Anche le immagini, il ritmo e le inquadrature della serie, del resto, esercitano un’attrazione rischiosa. Non si vorrebbe smettere di guardare, come se fossimo dei voyeur «seriali», che a una distanza di sicurezza proiettano sullo schermo i propri dubbi, conflitti, bisogni di amore, la noia per una vita monotona, la labilità affettiva, il desiderio di cura.
I quattro episodi di questa serie televisiva sono ispirati a una vicenda reale, il caso della brillante, dinamica, seducente infermiera Christina Aistrup Hansen, condannata nel 2017 a 12 anni di carcere per tre omicidi e un quarto tentato omicidio (si legga il best seller The nurse di Kristian Corfixen, tradotto anche in italiano). Christina si dichiara ancora innocente: il suo disturbo istrionico di personalità la inclinava a nascondere il suo senso di vergognosa inferiorità, a rimuovere le memorie dei suoi crimini e a esibire le doti d’infermiera impeccabile, tonica, tenace e sensuale, capace di rianimare pazienti che lei stessa induceva in arresto cardiocircolatorio. Le voci circolavano da un pezzo, ma nessun collega ebbe il coraggio di avvisare per tempo la polizia. Nessuno tranne la coraggiosa Pernille.