Rifiutava le regole accademiche e si rifaceva ai maestri del Trecento e Quattrocento italiano per tornare a un’arte più spontanea e immediata. Una mostra al Museo Civico San Domenico di Forlì fino al 30 giugno racconta la Confraternita preraffaellita.
Ci sono dipinti che hanno segnato il corso della storia dell’arte. Capolavori che, apprezzati o criticati, sono divenuti comunque terreno di semina per nuove correnti e produzioni. Uno di questi è la Trasfigurazione realizzata da Raffaello Sanzio nel 1518-1520. Sì, perché la grande tavola per la quale oggi molti turisti affrontano lunghe code fuori dai Musei Vaticani, qualche secolo fa era finita al centro di una diatriba, tacciata – così come il suo creatore – di aver idealizzato la natura e sacrificato la realtà in nome della bellezza. Correva l’anno 1848 quando i fautori di questa accusa, freschi di diploma alla Royal Academy di Londra, costituirono la Confraternita dei preraffaelliti. Uno strappo col passato e con la tradizione accademica in nome di un’arte più spontanea, in grado di valorizzare sentimenti e sogni dell’animo umano. Si chiamavano Dante Gabriel Rossetti, William Holman Hunt, John Everett Millais, Fredrick George Stephens, William Michael Rossetti (il fratello minore di Dante), James Collison e Thomas Woolner questi innovatori che ripartirono dall’arte medievale e gotica per tornare a una arcaica onestà e a un’attenta osservazione della natura tradita dal «veleno brillante e limpido dell’arte di Raffaello».
Parafrasando Ernst H. Gombrich in La storia dell’arte, «era necessario risalire oltre Raffaello, al tempo in cui gli artisti erano artefici “probi agli occhi di Dio”, facevano del loro meglio per copiare la natura, senza preoccuparsi della gloria terrena ma solo della gloria divina». Ripercorre proprio questa «missione» artistica la mostra «Preraffaeliti. Rinascimento moderno» al Museo Civico San Domenico di Forlì, fino al 30 giugno. Diretta da Gianfranco Brunelli e curata da Elizabeth Prettejohn, Peter Trippi, Francesco Parisi e Cristina Acidini, con Tim Barringer, Stephen Calloway, Charlotte Gere, Véronique Gerard Powell e Paola Refice, l’esposizione riunisce 320 opere – tra dipinti, sculture, disegni, stampe, fotografie, mobili, ceramiche, opere in vetro e metallo, tessuti, medaglie, libri illustrati, manoscritti e gioielli – di artisti italiani e internazionali che hanno in qualche modo ispirato l’arte preraffaellita e che ne hanno fatto parte.
Un viaggio indietro nel tempo all’Inghilterra vittoriana di metà Ottocento, o per dirla alla Oscar Wilde, al «Rinascimento inglese», quando la pittura e le arti decorative britanniche – fino ad allora rimaste in secondo piano rispetto alla letteratura – iniziano ad attirare l’attenzione di tutto il mondo. È in quest’epoca di fermento culturale che muovono i primi passi i preraffaelliti. Alcuni – come William Holman Hunt e Dante Gabriel Rossetti – si conoscono da quando erano studenti ed eseguivano schizzi dai calchi della Porta del Paradiso di Lorenzo Ghiberti (1425-’52, Battistero di Firenze). L’Italia, d’altra parte, resterà sempre per la Confraternita un punto di riferimento, oltre che una ricorrente meta di viaggio da cui trarre ispirazione. Non c’è da stupirsi, dunque, che il nostro itinerario al Museo Civico San Domenico inizi sotto l’egida dell’arte primitiva italiana…
Ripartire dall’antico
«Noi siamo quello che mangiamo» diceva il filosofo Ludwig Feuerbach (1804-1872). Non fanno eccezione i pittori preraffaelliti. Per capire la loro arte, bisogna indagare con cosa essi la nutrivano. Muove da qui la prima parte della mostra forlivese, ospitata nella Chiesa di San Giacomo (XIII secolo): un omaggio ai cosiddetti «primitivi italiani», gli artisti – toscani, ma non solo – attivi tra il Trecento e il Quattrocento, che, complice la loro «forza rigenerativa», tanto influirono sulla produzione di Rossetti, Hunt, Burne-Jones, Millais e via dicendo. Basta qualche passo dentro l’edificio sacro e siamo già catturati dalla Madonna in trono con Bambino fra sant’Antonio Abate, san Giovanni Battista, l’arcangelo Michele e san Francesco d’Assisi (1411) di Taddeo di Bartolo: un trionfo di luce e ieraticità che sembra dialogare con la Maddalena in marmo di Candoglia di Antonio da Briosco (1414), alla sua sinistra. Dal polittico di Volterra gli ori e i rossi si riflettono in nuances più opache (colpa delle manomissioni e degli interventi di pulitura subiti nei secoli) sulla Madonna in trono con il Bambino e due angeli (1280-1285) di Cimabue. Poi si accendono tra aureole e panneggi nel Compianto sul Cristo morto (1436-1441) del Beato Angelico e nella Madonna di Piazza di Andrea del Verrocchio e Lorenzo di Credi (1474-1483).
Dal rosso carminio del sangue di Gesù al magenta della veste del Battista, calziamo con la fantasia i sandali alati del Perseo di Frederick William Pomeroy (statua in bronzo, 1898) e voliamo verso la prossima opera, immersi in un’atmosfera onirica. La stessa che pervade la tela Pallade e il Centauro (1445-1510) di Sandro Botticelli. Oltre questo capolavoro giunto dalle Gallerie degli Uffizi di Firenze, saltiamo ancora dalla mitologia greca alla leggenda medievale del Santo Graal. È ispirato infatti alle gesta di re Artù e dei suoi cavalieri il ciclo di arazzi in lana e seta che Edward Burne-Jones disegnò tra il 1890 e il 1893 con Willliam Morris e John Henry Dearle, per poi affidarne la realizzazione alla manifattura Morris & Co. (in mostra la seconda serie, 1898-1899). Oltre 130 anni dopo, questi capolavori riproducono intorno all’abside della chiesa di San Giacomo quattro scene del ciclo arturiano, sotto lo «sguardo» di un’armatura da cavaliere tedesca del XVI secolo. In un lampo siamo condotti nel cuore della leggenda. Ecco la partenza dei cavalieri, con tanto di Ginevra che dona lo scudo a Lancillotto; il fallimento di sir Gawaine, Lancillotto addormentato davanti a una cappella; la visione del Santo Graal a sir Galahad, sir Bors e sir Perceval.
Al di là della monumentalità (fino a 7 metri di lunghezza!), ciò che rende questi manufatti ancora più unici è la precisione nei dettagli (vedere per credere la varietà di piante riprodotte) e la qualità di un artigianato prezioso quanto l’arte. Una tendenza, quest’ultima, che attraverserà un po’ tutto il periodo vittoriano. Come ci conferma la sezione successiva della mostra. Attraverso un corridoio, incontriamo frammenti del mondo in cui vissero i preraffaelliti. Libri, gioielli di ispirazione gotica, coppe in porcellana con decorazione stampata… C’è perfino la carta da parati decorata col logo della casa reale Tudor: un intreccio di rose, corone e rovi, elementi ricorrenti anche nelle opere preraffaellite, simbolo del male e delle avversità. Dal logo della regina Vittoria passiamo alla sovrana in persona, ritratta insieme al principe Alberto da Edwin Landser al ballo in maschera del 12 maggio 1842. Alla nostra sinistra intanto Giacobbe incontra Rachele tra le greggi di suo padre nel dipinto di Joseph von Führich, 1836, emblema di quella «pittura nazarena» che, rappresentata da alcuni artisti dell’Accademia di Vienna trasferitisi a Roma, influisce sul rapporto dei preraffaelliti con l’arte italiana.
Altro appassionato del Belpaese è John Ruskin, scrittore, pittore, poeta e critico d’arte che con i suoi saggi – su tutti, Modern painters – diviene portavoce della Confraternita. Giunto a Venezia per la prima volta nel 1835, Ruskin tornerà in Italia molte altre volte per ritrarre facciate di chiese, sculture, dipinti… Al Museo San Domenico ammiriamo una selezione dei suoi disegni e acquerelli, prima di entrare nel vivo della mostra. Tra sale e salette, si svelano i veri protagonisti della «rivoluzione preraffaellita»: se Ford Madox Brown, in realtà un precursore della Confraternita, porta nel movimento gli ideali cristiani dei «primitivi», Dante Gabriel Rossetti, figlio di un esule italiano librettista di teatro lirico, trasferisce ai compagni la passione per Dante Alighieri. Non a caso il sommo poeta ricorre spesso nei disegni e nei dipinti dell’artista (Dante in meditazione con un melograno, 1852; Studio per Paolo e Francesca da Rimini, 1855; Studio per Il saluto di Beatrice, 1859).
Italia a parte, ad accomunare un po’ tutti i preraffaelliti sono il forte interesse per la natura e l’utilizzo ricorrente di colori puri stesi su una superficie umida, ricoperta con bianco di zinco. Il risultato è una pittura chiara e brillante. Come in The Woodman’s Daughter (1851) di John Everett Millais, ispirato a una poesia di Coventry Patmore (1844) sull’amore impossibile tra la figlia di un boscaiolo e il figlio di un proprietario terriero. Enfant prodige soprannominato the child (il ragazzo) a causa della sua giovane età, Millais esplora i soggetti storico-letterari, le scene religiose e i ritratti. Come pure Edward Burne-Jones, che incontriamo nel refettorio del complesso museale forlivese. Dai bordeaux quasi vinilici del trittico L’Annunciazione e l’Adorazione dei Magi (1861) passiamo ai toni plumbei di La caduta di Lucifero (1894), un’intensa composizione sviluppata in verticale con gouache e oro su carta. Nell’universo di Burne-Jones c’è spazio anche per la mitologia e le leggende medievali (Cupido consegna Psyche, 1867; Pigmalione e l’immagine: il cuore desidera, 1871; Lancillotto alla Cappella del Santo Graal, 1896).
Per non parlare della poesia. Trae infatti il titolo da un’opera di Robert Browning Amore tra le rovine (1894): un olio su tela che racconta la fuga romantica di due amanti in un palazzo in rovina. La passione per la poesia, del resto, è un altro tratto distintivo dei preraffaelliti. Da Dante Gabriel Rossetti in poi, le incursioni nelle rime romantiche di Keats, Shelley, Tennyson, come pure in quelle più antiche di Boccaccio, Chaucer e Shakespeare si sprecano. Ut pictura poësis («Come nella pittura così nella poesia») diceva Orazio, quasi a indicare una sorta di corrispondenza artistica poi recuperata da John Ruskin nel 1856.
Saliamo una grande scalinata e ci troviamo negli spazi della Pinacoteca civica. Tra ritratti femminili (su tutti, la Vedova romana di Dante Gabriel Rossetti, 1874), paesaggi mediterranei (Frederic Leighton, Ragazze greche raccolgono ciottoli in riva al mare, 1871) e atmosfere rarefatte che quasi anticipano quelle simboliste (George Frederic Watts, Speranza, 1891), la mostra segue l’evoluzione della Confraternita, segnata da morti premature (Dante Gabriel Rossetti si spense a 53 anni, nel 1882, seguito da Ford Madox Brown, nel 1893, Millais, nel 1896, Burne-Jones, nel 1898, e Ruskin, nel 1900) e nuove generazioni di pittori. Con l’avvento del XX secolo il tempo dei preraffaelliti era scaduto. La loro «tempra dei ribelli», per dirla con le parole di William Michael Rossetti, tuttavia, era sopravvissuta e aveva fatto storia. «Volevano la rivolta, e fecero una rivoluzione».