I riquadri dell’Armadio degli Argenti appaiono come un compendio dell’opera di fra Giovanni da Fiesole, in cui egli ribadisce il mistero come fonte di bellezza, catturando la luce nei colori e nelle forme.
Tra il 1450 e il 1452, colui che sarebbe passato alla storia dell’arte come Beato Angelico, rientrò in Toscana, nominato priore del Convento di San Domenico a Fiesole (Firenze). All’epoca, fra Giovanni, questo il suo nome da religioso, era già un artista affermato. Eppure, anche in virtù della veste che indossava, continuò a contraddistinguersi per la sua indole pacata e modesta. Fu in quel momento che la grande esperienza maturata, unita a un talento ormai affinatosi negli anni, sfociò nella realizzazione dell’Armadio degli Argenti (ora al Museo di San Marco) per la Santissima Annunziata, il principale santuario mariano di Firenze; un’opera «che fece fare Piero di Cosimo de’ Medici» ci informa Giorgio Vasari, e che è considerata alla stregua della «summa artistica e religiosa» di Angelico in un ciclo pittorico in miniatura poiché, come sottolinea Angelo Tartuferi, direttore del Museo di San Marco, «ripropone in maniera sempre nuova, non solo le composizioni e le ambientazioni architettoniche e paesaggistiche sperimentate nel corso della sua quarantennale operosità, ma anche i tratti stilistici, disegnativi e coloristici, nel contesto di una qualità esecutiva di livello sublime».
Nello stesso tempo, nei trentasei riquadri che compongono i pannelli della Santissima Annunziata, «emerge la costante e dotta attenzione del frate-pittore ai temi teologici: nel caso specifico, la concordanza tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, rimarcata come meglio non si potrebbe dai cartigli che chiudono, nella parte inferiore e in quella superiore, ogni singola storia: il cartiglio inferiore recante il passo evangelico, mentre quello superiore propone il precedente del Vecchio Testamento».
Un’anta di quest’Armadio è in mostra al Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano. I suoi nove riquadri delle Storie dell’infanzia di Cristo ci raccontano un periodo cruciale della vita di Gesù. «La tavola è parte di un insieme più grande che non aveva solo una funzione devozionale – precisa Nadia Righi, direttore del Museo Diocesano –, ma doveva costituire la porta dell’Armadio in cui, nel santuario della Santissima Annunziata, venivano conservati gli argenti, gli ex-voto donati dai fedeli alla Madonna miracolosa».
Patrono degli artisti
A definire fra Giovanni da Fiesole angelicus pictor fu il suo confratello Domenico Corella. Ma occorrerà aspettare fino al 1982 perché papa Giovanni Paolo II lo beatifichi, due anni prima che Beato Angelico diventi il «patrono degli artisti».
Chi era fra Giovanni da Fiesole? Il suo vero nome era Guido, figlio di Pietro. Nacque a Vicchio nel Mugello (Firenze) alla fine del Trecento. Di lui abbiamo notizie solo verso il 1417 quando operò come «dipintore» nella Compagnia di San Niccolò del Carmine. Successivamente entrò nell’ordine domenicano. Il dibattito è ancora aperto su chi abbia influenzato maggiormente Beato Angelico nella sua formazione artistica. «Una parte della critica – precisa Tartuferi, che è anche co-curatore della mostra allestita a Milano – è incline a indicare in un altro grande frate-pittore di quel tempo, il camaldolese don Lorenzo Monaco, il maestro del giovane Guido di Pietro, prima dell’ingresso nell’ordine domenicano con il nome di fra Giovanni. Ma tale ipotesi non è suffragata da alcun dato certo». Comunque entrambi furono anche miniaturisti.
All’inizio del suo percorso artistico, Beato Angelico era ancora influenzato dallo stile tardo-gotico, seppur rimodulato secondo la lezione di Giotto e di altri maestri dell’epoca. Una delle prime opere d’esordio fu la Pala di San Domenico per il convento di San Domenico a Fiesole «che nella preziosa eleganza, nel gioco lineare e nei colori brillanti rivela un’attenzione al linguaggio di Gherardo Starnina, mentre il modellato e i contorni più morbidi si rifanno a Masolino e alle sculture di Ghiberti», osserva Alessia Devitini, conservatrice del Museo Diocesano. Di significativa importanza anche il Trittico di San Pietro Martire per lo stesso convento, in cui si avverte l’influenza di Gentile da Fabriano.
Il periodo fiorentino
La permanenza nella città toscana consentì a fra Giovanni di assorbire tutti gli stimoli artistici e culturali di quello scorcio del Quattrocento quando egli cercava ancora una sua identità pittorica, uno stile personale, pur vivendo l’irripetibile stagione del Rinascimento. «In quegli anni, l’artista mise a punto un linguaggio narrativo chiaro e comprensibile, caratterizzato dall’attenzione prospettica, da forme geometriche pure, e da colori luminosi e tersi. La sua pittura è un’esercitazione sul tema della luce, una luce tersa che fa brillare i colori dall’interno rivelandone lo splendore, riflesso del Divino», nota Devitini. Di questo periodo sono il Giudizio universale (Museo di San Marco), e l’Annunciazione (Museo del Prado, Madrid), un tema che sarà ripreso anche in altre circostanze. Del 1430 è l’Incoronazione della Vergine (Museo del Louvre, Parigi), dove «i santi che si dispongono lungo la scalinata marmorea sono scolpiti direttamente dalla luce, che avvolge tutto creando un effetto di rara sontuosità».
L’originalità dello stile, l’eleganza gotica, la solidità dei volumi e la lezione della prospettiva gli valsero numerose committenze sia pubbliche che private. Una delle più importanti la ottenne dalla potentissima Arte dei tessitori e mercanti in lana di Firenze. Il capolavoro della maturità dell’artista è «il ciclo di affreschi del convento di San Marco a Firenze, a cui lavorò fra il 1438 e il 1446. Destinato alla contemplazione da parte dei confratelli domenicani, è caratterizzato da un linguaggio sobrio ed essenziale, sintetico, di grande valenza simbolica, sia nelle scene dipinte nelle celle sia in quelle degli altri ambienti. Oltre agli affreschi – ricorda Devitini – dipinse anche la nuova pala per l’altare maggiore della chiesa, la Madonna con Bambino, angeli e santi (Museo di San Marco), che riassume la magnificenza della committenza dei Medici».
Alla fine del 1445, Beato Angelico fu chiamato a Roma da papa Eugenio IV che gli chiese di affrescare la cappella del Sacramento e l’abside di San Pietro. Il Pontefice ne aveva apprezzato le doti quando lo aveva visto all’opera nelle celle del convento fiorentino di San Marco. Fra Giovanni sarà di nuovo a Roma quando sul soglio di Pietro salirà papa Niccolò V che gli commissionerà l’affrescatura del suo studiolo e della cappella privata.
L’Armadio testamento
L’Armadio degli Argenti della Santissima Annunziata è un vero e proprio compendio dello stile e della vita artistica di Beato Angelico. In esso non mancano i rimandi alle sue opere precedenti. La prima scena del pannello in mostra a Milano, l’Annunciazione, ricorda l’affresco dell’Annunziata a Firenze e quello realizzato nell’ex dormitorio del vicino convento di San Marco, analogamente all’Adorazione dei Magi. E non sono gli unici riferimenti. Beato Angelico, approssimandosi alla morte, sembrò avvertire l’urgenza di lasciare un’eredità artistica e spirituale ai posteri, sintetizzata in una singola opera.
Don Alberto Cozzi, docente di Teologia sistematica al Seminario Arcivescovile di Milano, all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano, e alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, rileva che «Beato Angelico non doveva “rappresentare”, in maniera più o meno realistica, immagini e scene sacre in modo da edificare e istruire il popolo cristiano secondo la dottrina della Biblia pauperum (Bibbia dei poveri, ndr), ma “ri-presentare” un mistero, ovvero qualcosa che accade ora e coinvolge lo spettatore, suscitando in lui un desiderio di vita eterna. La sfida era quella di rendere partecipi di un avvenimento che si stava compiendo. Il mistero come fonte di bellezza: catturare la luce nei colori e nelle forme.
Per “ri-presentare” un mistero, ossia un avvenimento salvifico che ci comunica il divino, bisogna anzitutto catturare qualcosa di quella bellezza “sovra-essenziale”, che sta al di sopra di ogni forma o essenza creata, eppure si effonde su ogni cosa, e riempie ogni forma o figura creata della sua luminosità. È quanto Beato Angelico cerca di realizzare nelle figure di Maria o di Gesù Bambino o degli angeli e dei santi: una luminosità particolare ne penetra le forme e risplende nei colori, rivestendole di cielo». Quella di fra Giovanni da Fiesole è «una bellezza che attira, chiama, orienta, suscitando un desiderio che fa convergere verso l’unità». Non solo. «Nella sua arte, nella decorazione miniata, nella pittura su tavola e nell’affresco, la compenetrazione tra la pratica artistica e la devozione personale non ha confronti in ogni epoca», osserva Tartuferi. «Anche gli aspetti più naturalistici della sua vasta produzione presentano quel timbro inconfondibile che rinvia alla realtà soprannaturale».
Gli eredi di fra Giovanni
Chi seguì le orme di Beato Angelico? Secondo Tartuferi sono «degli artisti di notevole livello che gli furono accanto in alcuni lavori, ma dei quali non è facile delimitare con precisione il contributo. Si tratta di Zanobi Strozzi, probabilmente il seguace più letterale di Angelico, una sorta di suo “imitatore”, e di altri artisti più o meno noti, quali Battista di Biagio Sanguigni, Andrea di Giusto e, soprattutto, Benozzo Gozzoli». Il lascito ideale di Beato Angelico è notevole. «Va ricordato – conclude Tartuferi – che nessuno dei pittori antichi fu celebrato e copiato al pari di lui nella prima metà dell’Ottocento, in particolare da autori francesi: celebri i dipinti di Michel Dumas (1845) al Louvre di Parigi, e quello di Hippolyte Flandrin al Museo di Belle arti di Rouen. Non meno nota è la devota ammirazione, nei confronti di Beato Angelico, da parte di Mark Rothko (1903-1970), uno degli artisti moderni fra i più quotati sul mercato internazionale».