Il film d’animazione «Manodopera. Interdit aux chiens et aux Italiens» del regista italo-francese Alain Ughetto ha raccolto numerosi riconoscimenti europei ed è stato candidato al premio César.
Viene dal mondo dell’animazione Alain Ughetto (cortometraggi L’Échelle, 1981, La Boule, 1984 e il lungometraggio Jasmine, 2013), ma soprattutto viene dal Piemonte. Qui si trova un posto magico che, nella mente del regista bambino, non poteva esistere nella realtà: Ughettera, la «terra degli Ughetto». Eppure la Borgata Ughettera, frazione di Giaveno, c’è davvero e sorge sotto il Monviso, non lontano da Torino. Dal Piemonte partirono, all’inizio del Novecento, suo nonno Luigi e sua nonna Cesira per andare a lavorare in Francia, dopo aver sognato l’America. Incontriamo l’animatore e sceneggiatore per farci ricordare le sue origini italiane che sono al centro delle vicende familiari raccontate nel suo ultimo film: Manodopera. Interdit aux chiens et aux Italiens.
Msa. Nel film lei interagisce direttamente con i personaggi attraverso la sua mano cercando di inserirsi nella storia, nella sua storia personale. Come avrebbero commentato questo film sulla storia della vostra famiglia, i suoi nonni Cesira (nel film la voce narrante) e Luigi?
Ughetto. Il film segue il viaggio dei miei nonni dall’Italia alla Francia. La conoscenza, dalle mani di mio nonno è passata nelle mani di mio padre e poi nelle mie. Non ho conosciuto mio nonno Luigi. Avevo 12 anni quando mia nonna Cesira è morta: mi ha lasciato ricordi grandi e profondi, e in questo film ho voluto renderle omaggio.
In Manodopera ci sono molti stereotipi sugli italiani che lei ha colto e ha reso divertenti.
Mi ha ispirato molto la commedia all’italiana: Scola, Risi, De Sica, Comencini… Nel mio film, nonostante la durezza delle vite degli emigrati, non volevo essere prepotente ma avere l’eleganza dell’umorismo che si trova nella commedia all’italiana. Interdit aux chiens et aux Italiens («Vietato ai cani e agli italiani») era un cartello esposto fuori dai bistrot e dai negozi non solo in Francia ma anche in Belgio e in Svizzera.
La spiegazione del padre ai figli sull’interdizione è una battuta: «perché… perché i cani mordono gli italiani… ma gli italiani non hanno paura dei cani». È una frase originale?
È uno scherzo, una battuta inventata, in riferimento alla modalità espressiva de La vita è bella di Roberto Benigni. Sul tema della migrazione lavorativa e dei migranti economici in cerca di una vita migliore, qual è lo spunto di riflessione del suo film?
Il rispetto: il mio film è una testimonianza di ciò che hanno passato i miei nonni. Hanno attraversato tre guerre, un’epidemia di influenza spagnola che ha ucciso più persone della guerra, e nonostante tutto sono rimasti in piedi, orgogliosi e dignitosi. Questa testimonianza è destinata ai giovani e a tutti coloro che verranno dopo di noi: fate la vostra vita, certo, ma è da qui che veniamo noi, questo è ciò che hanno vissuto i nostri antenati.
Nella sua pellicola si dice che i lavoratori italiani all’estero si prestavano a fare un po’ di tutto, anche i lavori più semplici e umili, ed erano apprezzati per la loro adattabilità, che sui giornali veniva presentata come mancanza di dignità personale. Per questo ha scelto la tecnica dello stop-motion, in cui bisogna saper fare un po’ tutto?
I miei antenati vivevano grazie al lavoro delle loro mani, la tecnica dello stop-motion si presta perfettamente alla mia discussione sul lavoro manuale. Interrogando sua nonna, il narratore racconta dal suo atelier il percorso di vita dei suoi nonni.
Nel film ha curato i canti italiani e la musica popolare del Nord d’Italia ma anche della Francia. Cosa ha scoperto e quali fonti ha usato? Cosa ha apportato al suo progetto la collaborazione con il musicista Nicola Piovani?
Le mie fonti sono state gli archivi musicali dell’epoca. Ho chiesto a Nicola Piovani di accompagnarmi musicalmente. Nella mia mente volevo una musica che suonasse come mia nonna Cesira che, quando era in Francia, voleva essere più francese dei francesi, e non parlava mai italiano. D’altronde era sempre vestita di nero come la mamma. La sua pratica culinaria era la polenta e gli gnocchi, e la sua acconciatura un grande chignon. Anche in Francia, l’Italia era profondamente radicata in lei. Nicola Piovani ha tradotto tutto questo in modo molto bello.
Quali archivi fotografici, quali fonti sulla storia del costume popolare ha usato? Come le è stato utile il libro Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contadina. La pianura. La collina. La montagna. Le Langhe, di Nuto Revelli?
Nello scouting che ho fatto in Italia, sono andato al museo del costume di Chianale (Cuneo), al museo degli attrezzi di Pinasca (Torino) e anche negli archivi fotografici dell’epoca. Il ritrovamento delle testimonianze raccolte da Nuto Revelli ne Il mondo dei vinti è stato il fattore scatenante. Grazie a queste testimonianze, potenti e forti, il film ha potuto essere realizzato.
Avete lavorato molto sui particolari con l’aiuto di Jean-Marc Ogier (scenografo) e della sua squadra: gli occhi, le mani. Sono i dettagli che ha osservato quando ha visitato Ughettera?
A Ughettera non è rimasto nient’altro se non ruderi crollati sul lavoro contadino, enormi ricrescite di castagni sul lavoro dei carbonai, così ho recuperato ciò che costituiva la loro vita quotidiana: terra, castagne, broccoli, carbone e, con Jean Marc Ogier, abbiamo trasformato tutti questi elementi in un ambiente in cui i miei antenati potessero tornare a vivere.